Oggi parleremo con Marco Fratoddi, direttore della rivista “Sapereambiente”, che si occupa da anni di sostenibilità.  “Sapereambiente” ha tra i suoi progetti un programma di formazione, “La Scuola di ecologia”, che ogni anno organizza un “Corso di giornalismo ambientale e culturale” con un Campus in presenza. Abbiamo scelto di supportare con il nostro progetto “La Plastica è cambiata” proprio questo progetto per consolidare ancora di più le attività di approfondimento e di divulgazione della cultura sostenibile della plastica!

Leggi l’intervista!

Cosa significa per te “sostenibilità”?

Significa cercare una vita più felice per le generazioni presenti, attraverso una ridistribuzione più equa delle risorse, e per quelle che verranno, se ci abituiamo a pensare in termini rigenerativi la nostra maniera di abitare la Terra. È una sfida importante ed avvincente che richiede un approccio integrato all’innovazione, che passi attraverso le tecnologie per l’efficienza e la circolarità ma anche l’adozione di stili di vita coerenti con un’idea contemporanea di benessere, una sfida che ci chiama in causa nella nostra dimensione più profonda perché richiede a tutti noi di sentirci come parte della natura, non solo della collettività umana. E d’interpretarne gli equilibri non come vincolo ma come guida verso una fase nuova della convivenza su questo pianeta.

Ti occupi di divulgazione sulla sostenibilità e sull’ambiente da anni: secondo te com’è cambiata la narrazione su questi temi nel corso del tempo?

La comunicazione nel suo complesso è profondamente cambiata durante gli ultimi trent’anni, grazie all’avvento della sfera digitale, che guarda caso coincidono in buona parte con quelli che hanno visto affermarsi la cultura ambientale moderna. Quindi il discorso pubblico sull’ambiente si è manifestato in una fase cruciale per i modelli di comunicazione, risentendone profondamente in qualche maniera condizionandoli: siamo passati infatti da un approccio frontale ed assertivo, che pure ha dato i suoi frutti nella fase iniziale, ad uno più collaborativo e conversazionale, grazie ai social media che proiettano in rete un’idea di cambiamento fra pari che rappresenta la vera strategia per un’evoluzione autentica, mi viene quasi da dire biologica, dei nostri modelli di convivenza verso la sostenibilità. Un altro aspetto da sottolineare, a mio avviso, sta nel fatto che la comunicazione ambientale diventa sempre di più un terreno d’incontro piuttosto che di contrapposizione fra le parti, di collaborazione fra soggetti che possono integrarsi verso comuni obiettivi di responsabilità. Anche il registro si sta evolvendo, compensando quello catastrofista con un approccio centrato sulle soluzioni, l’unico d’altro canto che possa dare speranza e creare motivazione nelle persone.

Chi sono i principali interlocutori a cui si rivolge la rivista Sapereambiente?

La nostra missione è aiutare le persone a interpretare in maniera nuova la realtà, in termini sistemici e integrali, perché organizzino le proprie conoscenze in maniera utile al cambiamento, cercando la migliore coerenza fra saperi e comportamenti virtuosi, fra valori e pratiche. I nostri interlocutori sono tutti coloro che vogliano intraprendere questa strada nella propria vita personale ma anche attraverso il proprio impegno professionale e civico, i formatori impegnati nell’educazione alla sostenibilità, gli imprenditori che innovano, i decisori politici che guardano, a prescindere dalle appartenenze ideologiche, verso una società ad elevata coesione e basse emissioni di carbonio. Vogliamo intercettare l’attenzione che c’è in questa fase storica verso le tematiche ambientali e fare in modo che non sia un’occasione sprecata, praticando un giornalismo formativo che accolga tutti e aiuti anche a leggere la cronaca in maniera più consapevole, creando insomma gli anticorpi per la molta disinformazione che inquina i flussi di comunicazione.

A chi c’è necessità di parlare per diffondere una sana cultura della sostenibilità?

Penso in realtà che ci sia anche molto bisogno di ascoltare, perché quando si parla si trascura proprio quanto ci torna nella conversazione. Abbiamo bisogno di aprire il discorso con molte sfere di pubblico, direi che certamente bisogna includere i nuovi cittadini, quanti immigrano nei paesi più ricchi, compreso il nostro, che possono partecipare e dare molto a questa transizione. Sperando che le leadership politiche colmino presto il ritardo su questi temi: è davvero raro trovare decisori che si occupino di questioni ambientali con competenza e adesione autentica, credo sia una delle ragioni che spiegano la disaffezione dei cittadini dal voto. Diciamo che sarebbe auspicabile parlare anche a loro e con loro, se ci fossero orecchie disposte ad ascoltare.

Secondo te in cosa può migliorare il dibattito su questi argomenti?

I limiti sono ancora molti, non c’è dubbio. Certamente il dibattito sarebbe migliore se a livello del mainstream, nelle grandi testate giornalistiche, la notizia ambientale affiorasse in maniera meno episodica e intermittente, nell’ottica della continuità che già all’inizio degli anni Ottanta uno dei padri del pensiero ambientalista italiano, Antonio Cederna, auspicava in qualità di editorialista del Corriere della Sera. Invece, come confermano alcune recenti ricerche di Greenpeace e della fondazione Pentapolis, il discorso sulla sostenibilità resta ancora oggi in secondo piano a meno che non accada qualcosa di grave – vedi i fenomeni meteorologici estremi che periodicamente si abbattono anche sui nostri territori – oppure i grandi portatori d’opinione, da Xi Jinping a Greta, da Ursula von der Leyen a Leonard Di Caprio, fatte ovviamente le dovute differenze, non prendano la parola durante i grandi vertici annuali. Anche il giornalismo, insomma, deve mettersi in discussione se vuole partecipare al cambiamento e magari tornare ad essere interessante per il pubblico rivedendo molti criteri di notiziabilità legati ancora alla stampa delle origini.

Attraverso quali strumenti o canali può avvenire un cambiamento della narrazione ambientale e sostenibile?

Le vie sono molte, una è certamente la formazione di chi agisce, più o meno professionalmente, nel cosiddetto mercato dell’attenzione, il terreno più prezioso nel concitato sistema dei media contemporanei. Siamo orgogliosi e felici, perciò, di condividere con il progetto “La plastica è cambiata. Cambia idea sulla plastica” supportato da Alpla un’esperienza di formazione in campo giornalistico come il campus che abbiamo realizzato, all’inizio di giugno, presso la Pro Civitate Christiana di Assisi al termine del nostro Corso di giornalismo ambientale e culturale iniziato a febbraio. Abbiamo sperimentato, insieme a una ventina di nostri iscritti, una modalità espressiva che teneva insieme linguaggio fotografico e scrittura, contenuti scientifici e poesia, lavoro sul campo e gestione del testo digitale. L’obiettivo del nostro corso è formare nuove leve di narratrici e narratori che sappiano andare oltre la cronaca e praticare appunto un giornalismo formativo, che punti a raccontare i problemi ma anche le buone pratiche, a condividere con il pubblico risorse scientificamente fondate, esperienze e produzioni culturali capaci di incidere nel profondo delle identità, di mettere in discussione le nostre chiavi di lettura e creare le premesse per una nuova mentalità. Stiamo cercando di dare, nel nostro piccolo, un contributo all’innovazione in campo giornalismo e farlo insieme a chi sta cambiando la plastica e la maniera di percepirla ci sembra un’opportunità importante per unire le forze nella ristrutturazione dei nostri paradigmi interpretativi e facilitare la transizione in tempo utile con le urgenze del clima, con gli indicatori sulla perdita di biodiversità, con le istanze etiche che pone la nostra epoca.